Tappa 14: Casola in Lunigiana - Monzone
Località toccate
Casola in Lunigiana – Mandria – Fosso del Ragno – Il Palazzo – Bugliatico – Torrente Tassonaro – Torrente Rondonaia – Argigliano – Canale dell’Inferno – Canale di Rosceto – Monticello – Ugliancaldo – Torrente Lucido di Ugliano – Equi Terme – La Prada – Aiola – Fosso Canalone – Mondola – Ponte di Santa Lucia – Ponte di Monzone.
La tappa
Si tratta di una delle tappe meno faticose, con la quale, prima di rientrare in territorio fivizzanese, si andrà alla scoperta di grotte e acque termali. Va anche detto che il tratto Casola-Argigliano è stato modificato (e migliorato) rispetto al percorso originario in quanto divenuto impraticabile.
A Casola in Lunigiana (m. 324) (foto 1) occorre ripercorrere il tratto della tappa precedente che, passando nei pressi dell’Oratorio della Madonna del Carmine, torna al bivio a destra con una bretella di via del Carmine che come punto di riferimento ci dà ad un certo punto il civico 167. Panoramica verso il Monte Pisanino, la stradina presto diviene sterrata e si accinge a passare tra fasce di uliveti in parte abbandonati. (foto 2)
Alla comparsa pure della cuspidale del Pizzo d’Uccello, la buona pista fiancheggia per qualche metro una recinzione, poi, nuovamente fra gli ulivi e qualche vitigno, incontra alcuni baraccamenti e si affaccia su Argigliano. In leggera salita, ci si porta verso il ripiano della Mandria, in parte coltivato con piante da frutta, da cui si comincia a scendere chiusi ai lati da vegetazione impenetrabile. Di nuovo in salita, ci s’intervalla fra boschi e coltivi incontrando in punti diversi due opportunità sentieristiche che a sinistra salgono a Pugliano. Riprendendo a scendere si fa ingresso, come nella tappa precedente, in territorio lucchese, ora in località Lugigliano (m. 447), dove s’incontra un isolato edificio rurale, (foto 3) oltre il quale è importante trascurare una via a sinistra, ma piuttosto restare appena al disotto di un ampio pianoro erboso. Scavalcato il Fosso del Ragno, fra radure e uliveti si raggiunge abbastanza velocemente una vasta area ad oggi coltivata, di nuovo al confine comunale con Fivizzano, mentre alle spalle spunta su un cucuzzolo il borgo di Pugliano. Qui si volta a sinistra e presto si confluisce su un’altra pista che in basso a destra ci presenta la Residenza Il Palazzo (m. 399), villa signorile con più di un secolo di storia oggi ristrutturata e convertita in casa vacanza. Con successiva piega a sinistra, si continua accompagnati dagli ulivi finché, al ritrovamento dell’asfalto, si fa ingresso in località Bugliatico (m. 377), ove si passa fra le abitazioni. Senza mai deviare dalla stradina principale (a un certo punto si lascia a sinistra via Panoramica), presto ci si affaccia sulla vicinissima stazione ferroviaria, da sottopassare attraverso un tunnel, oltre il quale s’incontra il bivio stradale che a sinistra conduce sulla Provinciale 59, all’altezza dell’ingresso della stazione.
Nulla vieta a questo punto uscire per qualche minuto dal Trekking Lunigiana per andare a scoprire da vicino il borgo di Pieve San Lorenzo, attraversato dal Torrente Tassonaro, sede di una chiesa quale pregevole esempio di architettura romanica probabilmente risalente al X secolo.
Assieme al segnavia CAI 181, si segue a destra via Bonosolo e presto ci si porta al ponte sul Tassonaro, (foto 4) torrente originato da un buon numero di corsi d’acqua fra i quali ricordiamo il Rondonaia, il Cambra, il Rosceto, l’Inferno, il Fiatano, il Martellino e il Fosso della Ruota. Passando fra case e giardini s’arriva al termine dell’asfalto, su un appezzamento prativo tagliato trasversalmente dal Torrente Rondonaia. Ci si dirige verso il guado, osservando a sinistra il non più sicuro ponticello sostenuto da cavi, (foto 5) poi, alla prima deviazione a sinistra, ci si avvicina all’altra estremità del pontetto, nei cui pressi ci s’inserisce in un rabbuiato sentiero acciottolato fino ad uscire allo scoperto, in salita, all’altezza di Casa Spadoni (civico 27), anticamera del caseggiato de La Villa, in quel di Argigliano (m. 378). (foto 6)
Argigliano è l’ultimo villaggio della Lunigiana granducale dal lato di levante, dove confina la comunità lucchese di Minucciano. Da sempre in contrasto con gli abitanti della vicina Pieve San Lorenzo, ci vengono raccontati due aneddoti riferiti ad epoche differenti. Quello più recente risale alla prima metà del XIX secolo e narra della morte di un asino che finì mangiato dagli abitanti di Pieve, i quali, in séguito, gettarono zampe, testa e ossi nell’unico pozzo in cui la popolazione di Argigliano attingeva acqua per sé e per le bestie. Gli animali smisero però di bere e dopo alcuni giorni di mistero fu scoperto l’arcano e sùbito si pensò ad una vendetta. Un giovane di Pieve che andava a scuola dal parroco di Argigliano venne preso e legato con l’osso di una zampa dell’asino al collo e spedito così in territorio lucchese.
L’aneddoto più antico invece, risale al 1610 e tratta del rusco, ossia le foglie e i ricci di castagno considerati beni preziosi per il loro impiego nelle stalle come lettiere per gli animali. A quell’epoca Argigliano non aveva né chiesa né cimitero e gli abitanti seguivano le cerimonie nella chiesa di Pieve San Lorenzo, portando i loro morti nel suo cimitero. Un giorno però, mentre stavano trasferendo un defunto al cimitero, quelli di Argigliano trovarono chiuso il cancello e dovettero tornare indietro. Il motivo di questo rifiuto riguardava proprio il rusco, infatti, gli abitanti di Pieve accusarono i rivali d’aver sconfinato oltre il torrente i limiti di Stato (lucchesia e massese) per raccogliere o, a lor detta, rubare il rusco e le castagne di loro proprietà. Ad Argigliano oggi vivono un’ottantina di persone.
Sottopassato un volto, si lascia a sinistra una bella piazzetta, quindi, lungo via La Villa, in presenza di orti, s’incontra nei pressi di una maestà con bassorilievo del 1768 dedicato alla Madonna uno spazio cortilizio in cui è custodita la cappelletta dedicata al venerabile Angelo Paoli, il “padre dei poveri”, carmelitano nativo di Argigliano vissuto a cavallo dei secoli XVII e XVIII.
Arrivati dinanzi alla chiesa dedicata a Santa Maria Assunta, (foto 7) la si costeggia sul fianco sinistro, camminando su un sentiero acciottolato cintato da muri a secco che sostengono uliveti.
Risalente al XVI secolo, la chiesa è preceduta da una scala a doppia rampa e presenta una facciata delimitata da alte paraste laterali intonacate che sostengono il timpano triangolare con la cornice a guscio rigirante, aperto da una lunetta centrale che illumina il sottotetto. Il prospetto è stato ricondotto in pietra a vista isolando gli elementi intonacati e mitigando il risalto di quelli in arenaria: la finestra rettangolare con ampi lobi semicircolari laterali e il pregevole portale. Il luminoso interno si configura come un’ampia sala larga ripartita in quattro campate che l’arco trionfale a cornice concava riduce di circa un metro (complessivamente sono sette) aprendosi verso il presbiterio dal fondo rettilineo raccordato con ampie semicurve alle pareti laterali. Il movimento delle unghie troncoconiche costolonate raccordate a semicerchio alla volta a botte lunettata che ricopre l’aula, anima l’interno, modulato da una trabeazione dorica che scopre le nicchie destinate ad ospitare l’incompleto disegno degli altari laterali, tre dei quali in pregevole manifattura lignea.
In viva salita ci si raccorda all’ex tracciato originario del TL (oggi in parte recuperato da una variante del Sentiero dei Ducati) e proseguendo a sinistra ci si porta allo scavalcamento del Canale dell’Inferno, solitamente asciutto. La buona mulattiera sale inizialmente ripida, (foto 8) poi si mantiene costantemente non troppo faticosa tracciante tutta la costa che digrada dal Poggio Calcinara, avancorpo nordorientale del Monte Cavoli. Dopo qualche minuto, sempre all’interno di un bosco di querce, castagni, faggi, felci ed erica arborea, ci s’impegna di meno grazie a un tratto quasi pianeggiante (foto 9) che si mantiene attorno ai cinquecento metri di quota e che conduce al franoso costone roccioso che racchiude lo stretto valloncello del Canale di Rosceto, affluente del Rondonaia.
Ci troviamo esattamente nel settore orientale del Monte Cavoli, dove in quest’ordine si scavalca un fosso asciutto e si fiancheggia una parete tormentata da frane, poi, riapprodati in un contesto migliore, cioè più tranquillo e fascinoso, ancora una volta rivestito da un piacevole mix boschivo, si perviene all’antico sito della Croce di Rosceto, (foto 10) icona lignea impiantata da decenni nel ceppo di un castagno purtroppo ad oggi scomparsa per mano di uno sconsiderato (la speranza è rivederla al più presto).
Ci si tiene a destra, iniziando a salire con andamento irregolare per una ventina di minuti tra folti di felci ed esemplari secolari di castagno, fino a volgere verso un secondo valloncello, quello di Cambra, che non si guaderà mai. In compagnia di cerri ed erica arborea, ci si affaccia verso i Poggi di Baldozzana e le ardite vette del Pisanino e del Pizzo d’Uccello, poi, con una salita meno intensa, ci si espone ancor meglio sull’anfiteatro boscoso alla cui sommità si scorge coricato il caratteristico caseggiato di Ugliancaldo. Improvvisamente, compiendo in ripida salita una serie di svolte, ci si riaffaccia verso oriente, cioè in direzione del versante appenninico, con in primo piano La Nuda, dove ancora una volta fra cuscini d’erica arborea e successivamente castagni, (foto 11) si guadagna lo schienale del Monticello (possibile incontro con il capriolo).
Con un comodo tratto pianeggiante, si va a fiancheggiare la cinta muraria di un’abitazione, sbucando in breve sulla Provinciale 58 che sale da Casciana. Si va a sinistra e fiancheggiando il lunghissimo caseggiato di via Case Nuove ci si affaccia a precipizio verso la Valle del Lucido, dove ai piedi del Monte Grande si scorge l’abitato di Equi Terme. (foto 12) Siamo a Ugliancaldo (m. 742), (foto 13) borgo curiosamente sdraiato su un crinale a cavallo tra la Lunigiana e la Garfagnana, il cui centro storico lo si raggiunge in pochi secondi, deviando a destra appena superato l’oratorio sconsacrato dedicato a San Rocco. (foto 14) I segnavia del TL però restano sulla strada e vi rimangono fino a metà caseggiato (fonte nei pressi), quando improvvisamente deviano tosto a destra per sottopassare un’arcata e, in compagnia dell’itinerario contrassegnato 176, inserirsi nella via centrale del borgo (per non perdere la prima parte del paese, consigliamo di fare ingresso deviando a destra all’oratorio di San Rocco).
Altissimo sulla splendida vallata del Lucido, fu un tempo fiorente centro commerciale e artigianale nella lavorazione dei tessuti, dei filati e del legno, prima sotto i Malaspina di Fosdinovo e di Castel dell’Aquila (sopra a Gragnola) e successivamente, dal 1418, sotto Firenze. Il toponimo deriva probabilmente dal nome di un gentilizio romano, tale Ulius. Percorrendo il lungo corridoio abitativo di via Case Nuove, vertiginosamente affacciati verso la vallata del Lucido (curiosamente il caseggiato non presenta interruzioni fra gli appartamenti) e ancor più verso le Alpi Apuane, si raggiunge l’oratorio sconsacrato di San Rocco, risalente al XVIII secolo. Sùbito a destra è la zona denominata Castello, la parte più antica del borgo, collocata su uno sperone roccioso, un tempo presumibilmente cinto da mura (secoli XIV-XV), di cui restano soltanto i ruderi di una torre di fiancheggiamento. L’impianto urbanistico di Ugliancaldo è caratterizzato da un percorso principale pavimentato con lastre d’arenaria su cui si affacciano antiche costruzioni in sasso, la gran parte ristrutturate di recente, alcune con portali in pietra scolpita e con arco saldato al centro da motivi architettonici o dallo stemma liteo della famiglia. (foto 15) All’estremità meridionale dell’abitato, si trova la chiesa di Sant’Andrea, edificata nel 1488 sui resti di un edificio romanico. Cinta su tre lati da un porticato rinascimentale contornato da cipressi, fu distrutta e ricostruita in séguito al terribile terremoto dell’11 aprile 1837. Al di sopra del grande timpano che copre il portico, ornato con il rosone stellare affiancato dalle statue dei santi patroni, emerge il frontone spezzato triangolare che corona la facciata della chiesa ingentilita dal portale marmoreo datato 1774. L’aula rettangolare, suddivisa in tre campate con quattro altari addossati alla parete e presbiterio poligonale, è coperta con un soffitto a capriate lignee. La trabeazione è ridotta a una sola cornice sulla quale s’imposta l’arco trionfale posto sulla linea dell’altare chiudendo il vano dell’aula.
Girovagando sull’asse viario interno e per le viuzze laterali, (foto 16) oltre alle numerose peculiarità architettoniche, si scoprono all’interno di un antico palazzo mediceo (sempre se disponibili) testimonianze della vita di un tempo. Colpiscono in particolare un barilotto in doghe, un’intelaiatura in legno (foto 17) probabilmente usata per i filati, alcune pietre scolpite, una culla e una rarissima mònega, altrimenti chiamata “preé”, purtroppo priva del suo scaldino. (foto 18) Soppiantato dagli scaldaletto elettrici, la mònega venne soprattutto utilizzata nelle case di campagna o dalle famiglie meno abbienti fino addirittura agli anni settanta del XX secolo. La struttura, un attrezzo di legno formato da due coppie di assicelle ricurve unite agli estremi e poste lateralmente sopra e al disotto di una gabbia cuboidale aperta, avente base quadra centrale ricoperta di lamiera onde evitare bruciature, entrava in funzione nel momento in cui le veniva inserito lo scaldino, un recipiente tondo di ferro o rame, simile a un piccolo tegame, riempito di braci, dotato di manico e coperchio bucherellato (o traforato con intagli artistici), da dove il calore poteva diffondersi.
Al civico 19 si volta a destra, a sottopassare un’altra arcata, e con sguardo rivolto verso il Pizzo d’Uccello, si scende per viottolo incontrando una Madonnina con dedicazione al salvataggio di un certo Elia Pellini durante il periodo fascista. Confinando frutteti presto ci s’inoltra in un castagneto ricco di esemplari ultracentenari, (foto 19) all’interno del quale si comincia a discendere a svolte il versante occidentale del Monte Cerasoli. Queste serrate e infinite serpentine, accompagnate ad un certo punto pure da faggi ed erica arborea, (foto 20) sono collocate esattamente nella località boschiva di Pegli, tra le vallette del Pelio e del Cerreto, nell’alto Lucido di Ugliano.
Il tratto è un po’ monotono, pare non finire mai, almeno finché, dopo circa trenta minuti, non s’arriva a contatto con le acque del Lucido, che ha da poco ricevuto gli affluenti prima citati oltre a quello di Farneta che cala da nord dal Monte Faieto. Sempre a diritto, si prosegue all’interno del bosco pianeggiando verso una curiosa presa d’acqua che sgorga dal rubinetto di una tubatura fuoriuscente dal terreno, poi, un po’ esposti a sinistra verso il sottostante valloncello, si sale brevemente per riprendere poco più tardi a scendere su terreno in parte roccioso, completamente circondati da vegetazione promiscua. Ad un certo punto la traccia procede scalinata e pavimentata a ciottoli (foto 21) e man mano che s’abbassa tende ad avvicinarsi sempre più al rumoreggiante torrente vallivo, il Lucido di Ugliano, ov’è possibile trovar refrigerio. (foto 22) Attraversato un rio, si fiancheggiano a destra radure con orti e recinzioni favoriti da una canalizzazione acquifera molto utile alle coltivazioni, poi, confluiti su una pista a fondo naturale, ancora fra coltivi e recinzioni, si punta verso lo svettante e acuminato corno del Monte Grande, (foto 23) dove sullo sfondo impressiona la tenebrosa e rigida parete nord del Pizzo d’Uccello.
Scavalcato il Lucido su un pontetto cementato, si arriva in breve alla stradina asfaltata di via Noce Verde, che a sinistra conduce al Solco d’Equi, qui marcata pure col segnavia 192 che sale ai Poggi di Baldozzana, e a destra, nostro senso di marcia, verso il fianco dello stabilimento termale di Equi.
Il Solco d’Equi è un canyon naturale in cui si aprono la Grotta delle Felci e il Buco del Diavolo, ma soprattutto, per gli appassionati di speleologia, la Tana della Volpe, dove l’uomo paleolitico seppelliva i propri morti e praticava i propri culti.
Lo stabilimento termale di Equi è caratterizzato da acque curative clorurate solforose, già note in epoca romana, con una temperatura variabile fra i 17 e i 27 gradi. Sono indicate per la cura delle affezioni dell’apparato respiratorio, per le malattie della pelle, per le malattie osteoarticolari e per le terapie angiologiche. Le acque di Equi hanno un tasso di cloruro di sodio elevato, adatte pertanto sia per essere bevute sia per le proprietà benefiche sulla pelle. Nel parco sono presenti due piscine alimentate a getto continuo con acqua termale, una ovale di metri 40×14, con una profondità che varia da m. 1,20 a m. 2,20 e una riservata ai bambini.
Oltrepassati un tabernacolo del XVII secolo con bassorilievo dedicato alla Madonna e pochi metri più avanti un tempietto con accesso scalinato al cui interno è conservato un bassorilievo intitolato al Santo Rosario, (foto 24) si trascura a sinistra un bivio che conduce al Santuario della Madonna del Bosco, custode di una leggenda legata alla sua costruzione risalente al lontano 1608 quando a due devote pastorelle apparve la Madonna. Nei pressi di questo bivio, poco in alto a sinistra, vi sono gli antichi lavatoi rimasti in uso fino agli anni ’70. Pochi secondi ancora e siamo ad Equi Terme (m. 253), (foto 25) borgo curiosamente diviso a metà dal torrente vallivo, (foto 26) dove una volta al cospetto del ponte sul Lucido, di fronte a Piazza delle Terme, si prende a sinistra la prosecuzione di via Noce Verde (civico 46) che sùbito incontra un ex edificio scolastico, oggi Centro Visite del Parco Apuane.
Equi Terme ha mantenuto la sua tipicità e le sue caratteristiche insediative tipologiche, dal momento che nel corso dei secoli non è mai stato abbandonato. Sul fondovalle, cioè lungo la direttrice viaria che segue il Lucido, si presenta un insediamento longitudinale moderno che nulla ha a che vedere con quello originario posizionato verso monte, dove invece si respira un’atmosfera decisamente diversa, fatta di case in pietra e strette viuzze che conservano il fascino dei tempi remoti. (foto 27)
Di straordinario interesse nei dintorni di Equi sono inoltre: il Museo delle Grotte, allestito in un mulino del XV secolo; la cosiddetta Buca con le Grotte, grande cavità fossile accessibile da una bocca aperta nella parete strapiombante, da dove parte un tratto attrezzato che conduce alle grotte ricche di stalattiti e stalagmiti e un laghetto sotterraneo; infine, la Tecchia preistorica, cavità dove si ritiravano per il letargo gli orsi in epoca neanderthaliana e dove sono stati ritrovati reperti preistorici (utensili d’epoca paleolitica e dell’Età del rame) e testimonianze faunistiche dell’epoca glaciale, soprattutto dei già citati orsi, lupi, volpi, marmotte, linci, leoni, ermellini e aquile reali. Spettacolare il tuffo da una cavità del Fosso di Fagli all’ingresso delle grotte. (foto 28)
Protetto dalla parete nord del Pizzo d’Uccello, le sue origini toponomastiche s’intrecciano con tre differenti ipotesi: la prima sembra derivare dal latino “acquae”, riferito alla presenza delle sorgenti di acque termali; la seconda la fa risalire alla famiglia romana degli “Aequi”, quando intorno al 179 a.C. i numerosi centri che sorgevano in Lunigiana prendevano nome da quello delle popolazioni sconfitte che abitavano il territorio o dal nome dei capitani che ne ottenevano la conquista; la terza infine, segue la tradizione locale che vuole il borgo fondato da alcuni esuli di Luni in séguito alla distruzione di questa città da parte dei Normanni.
Nel centro storico è interessante la chiesa dedicata a San Francesco, costruita come piccola cappella tra il X e l’XI secolo. La facciata a capanna affiancata dal campanile cuspidato, con l’archivolto che immette nell’area retrostante, sono completamente in pietra e, privati dell’intonaco, rivelano le vicende costruttive delle fabbriche. La chiesa è stata sopraelevata per costruire le volte che hanno sostituito la precedente copertura lignea, mentre il campanile con le celle gemelle sovrapposte, ingentilite da quattro grandi arcate, rivela il tamponamento di quella inferiore. I fianchi e il presbiterio conservano tracce delle precedenti aperture romaniche, tamponate per irrobustire la parete rinforzata, anche all’interno, dai pilastri che sostengono le volte. Un portale medievale dalla lunetta a tutto sesto con ghiera in marmo bianco, di gusto pisano lucchese, sottesa da architrave rettilineo in macigno con mensole allineate agli stipiti, collegati da profonde chiavi laterali, contiene una pregevole immagine della Vergine con Bambino, settecentesca, come le figure dei santi Francesco e Antonio collocate nelle nicchie laterali. Un modesto rosone novecentesco riveste l’apertura circolare retrostante e orna la sobria facciata, chiusa da un guscio di coronamento. L’interno, ad aula unica, con presbiterio rettilineo, presenta la fisionomia settecentesca assunta dall’antica cappella medievale. Quattro altari laterali, di buona fattura, si addossano direttamente alla parete animata dalla sagoma delle paraste che sostengono le volte a sesto subcircolare che ricoprono il vano. L’ampio presbiterio conserva ancora la balaustra marmorea che precede l’altare, in marmo policromo di gusto ligure, e il pregevole coro ligneo settecentesco. Nel complesso l’aula adornata con marmi, medaglioni, cartigli, iscrizioni e ghiere dipinte condivide con altre chiese della Lunigiana un gusto eclettico rimasto attivo fino alla metà del secolo XIX.
Curiosamente fino al 2005 il frazionamento in due parti del borgo di Equi veniva sottoposto a una doppia amministrazione comunale, infatti, le case sulla sponda destra del Lucido ricadevano sotto Casola, mentre quelle a sinistra erano comprese in quel di Fivizzano. Oggi ad Equi risiedono circa 150 abitanti.
Assieme al segnavia 39 si segue in salita la strada arrivando in località La Prada, dove all’altezza dei civici 6 e 15, in sostanza prima che la carreggiata cominci a scendere, ci si diparte a sinistra su un viottolo che fa sùbito ingresso in un bosco di nocciòli e castagni. (foto 29)
Per chi non volesse seguire la strada va detto che può approfittare di una bretella del TL la quale, al civico 56 di via Noce Verde si tiene a destra per andare velocemente a salire sul Ponte Romano che salta il Fosso di Fagli, (foto 30) oltre il quale, in breve tempo, ritorna in strada. Nonostante il toponimo, questo ponte ha origine medievale e le sue buone condizioni statiche sono esclusivamente dovute ai suoi elementi costitutivi, con le pietre della copertina in calcare cavernoso di notevoli dimensioni e le ghiere dell’arco realizzate con pietre accuratamente lavorate a formare ottimi incastri con scarso uso di malta.
In leggera salita si percorre il residuo di un acciottolato, (foto 31) si oltrepassa un rudere e in vista del paese di Mezzana, posizionato sul versante opposto, si pianeggia serenamente in costa alle pendici settentrionali del Bargo, fino a raggiungere un impianto a conifere. Qui si punta il vicinissimo camposanto di Aiola (fonte), oltre il quale, imboccata a diritto la sua sterrata d’accesso, si prosegue per una trentina di metri circa, deviando a sinistra su una via erbosa che presto si trasforma in sentiero. Superata un’area prativa recintata, (foto 32) si cammina fra piane con piante da frutta, roveti e coperture a carpino, fino ad arrivare al primo caseggiato di Aiola, quello di via Canale, dove si sale a sinistra passando fra case (interessante un portale con lo stemma dei Medici) e una cinta che sorregge un terrazzamento ricco di piante da frutta, tra cui cachi, meli (tipo rotella), albicocchi, ciliegi e peri. Passato il pontetto sul Fosso Canalone (indicato erroneamente pure Canale d’Aiola), spesso asciutto, si perviene al caseggiato di via Baracca (detto anche Collo), dove si sbuca sulla strada asfaltata che muore all’altezza dei lavatoi datati 1906 e forniti di ottima e fresca fonte. (foto 33)
Da questo punto, nel caso in cui il cielo fosse terso, si ha una veduta strepitosa verso la dorsale appenninica che ben si delinea a partire da La Nuda (sopra al Cerreto) fino al lontanissimo Monte Orsaro (sopra a Pontremoli). Passando al fianco dei lavatoi, si entra nel cuore di Aiola (m. 328), dominato dal Monte San Giorgio, (foto 34) e ci si porta sulla piazzetta di via Bainsizza, al cospetto dell’antica chiesa dedicata a San Maurizio, (foto 35) con fonte nei pressi.
Anticamente sede di un castello, oggi in rovina essendo stato abbandonato alla fine del XVIII secolo, Aiola conserva in molti dei suoi portali l’anno di costruzione degli edifici. Qui, nel 1686 i Medici tentarono di aprire una miniera di rame con scarso successo. Antico feudo dei marchesi Malaspina e della Repubblica Fiorentina (XVI secolo), presenta al suo interno la chiesa dedicata a San Maurizio, risalente al XII secolo, ma edificata su un preesistente edificio romanico. È posizionata sull’asse di uno stretto vicolo che lascia scorgere il podio del sagrato, il portale in arenaria, l’altorilievo raffigurante San Giorgio e il drago e la bifora novecentesca sormontata dal timpano. Sul retro dell’abside, dove si trovava il vecchio cimitero, nel 1708, è stato addossato il campanile. Le murature esterne dell’edificio, soprattutto quelle dei fianchi, sono realizzate con conci ben squadrati che richiamano murature degli edifici religiosi del XIII secolo; esse includevano anche la facciata oggi molto rimaneggiata. La chiesa è a pianta rettangolare ad aula unica, coperta a capanna, rifasciata all’interno con una partitura architettonica modulare atta a sostenere le volte, ridipinte dopo l’incendio del 1909. L’antico spazio romanico di cui si conserva, oltre all’esterno, anche un frammento dipinto quattrocentesco, ha assunto quindi l’assetto tardo barocco comune a molti altri edifici lunigianesi. Contiene, oltre all’altare maggiore di pregevole fattura ligure, due altari laterali in corrispondenza del controasse del vano.
Ad Aiola oggi risiedono circa una cinquantina di persone.
Lasciata a sinistra la prosecuzione dell’itinerario 39 diretto a Vinca, si scende tosto a destra sottopassando un’arcata, quindi, a sinistra (altra arcata), ci s’immette in via Lorenzo Magnifico, dove si osservano portali e maestà. Usciti dunque dal paese, si ricalca una traccia in erba e prestando molta attenzione alla segnaletica è importante tenersi a destra a un primo bivio per calare su un antico acciottolato che s’inoltra nel bosco della Mondola, costituito da querce, faggi, nocciòli e castagni. Più sotto ancora si attraversa un’area carsica splendidamente boscosa, (foto 36) arricchita da erbacee tipiche delle zone umide, poi, dove il bosco presenta nuove specie floreali, si comincia a serpeggiare fino ad incrociare un sentiero trasversale da seguire a destra. Sempre in discesa, dopo pochissimi metri, in corrispondenza del ritrovato Torrente Lucido, si prende a un quadrivio la seconda a sinistra (a destra si raggiungerebbe il Molino di Aiola), una pista a fondo naturale che fra la vegetazione conduce velocemente al Ponte di Santa Lucia (m. 218). (foto 37)
Costruito a schiena d’asino, in muratura e a campata unica, sorge quasi sulla confluenza tra il Lucido di Vinca e il Lucido di Equi. Esso risale al 1743, ma prende l’attuale nome dal 1818, come si evince da una maestà dedicata appunto alla Santa, posta da un certo Giuseppe Mannoni. Come ricorda una lapide, il luogo fu teatro di un tragico evento: nell’estate del 1944 il comando della 16ª Waffen SS Panzergrenadier, unito ai militi della Brigata Nera Mai Morti, compirono in tre giorni uno dei più spietati eccidi della seconda guerra mondiale, quello di Vinca, con totale distruzione del paese. Don Luigi Ianni, giovane parroco (26 anni) di Vinca, cercò fino all’ultimo di portare soccorso ai suoi parrocchiani organizzando una disperata difesa prendendo contatto con i partigiani attivi sulle Alpi Apuane. Recatosi con il padre Gilberto Ianni verso il Monte Sagro, al suo rientro venne arrestato dalle Brigate Nere e condotto assieme al padre e ad altri due uomini davanti al Ponte di Santa Lucia per essere fucilati.
Siamo ora in via delle Cave, sulla strada che da Ponte di Monzone sale a Monzone Alto e a Vinca, da seguire a destra finché, all’altezza del bivio per Equi, si diparte tosto a sinistra un corridoio di via Riolo, chiuso fra muretti. Passando fra case e cortili, s’arriva nei pressi di una fonte davanti a una chiesetta attinente alle proprietà di quelle che nel XVII secolo costituivano Villa Giannetti, dimora storica costruita nel 1672, ricca di beni pittorici tra cui alcuni affreschi dell’artista fivizzanese Stefano Lemmi.
Sottopassata a destra un’ampia arcata, si trascura la trasversale di via Borgo con a sinistra i segnavia che salgono a Monzone Alto, (foto 38) meritevole di una visita anche se come punto terminale della tappa è previsto Ponte di Monzone. Proseguendo lungo la stretta via Riolo, si esce sulla rotabile di Tenerano e in leggera discesa si passa accanto all’orribile moderno campanile della parrocchia di Monzone basso dedicata alla Regina Pacis. Fra le case infine, ci si porta a scavalcare la linea ferroviaria, da dove in pochi secondi ci si stoppa tra la “vitalità” di Ponte di Monzone (m. 207). (foto 39)
Monzone appare per la prima volta in un documento del IX secolo, dove viene citata una cappella intitolata a San Simone del Popolo di Monzone; altra citazione del 1055 nel Codice Pallavicino, dove Rodolfo da Casola dà in garanzia la plebe di Monzone, ma non Castello, al vescovo di Luni per l’incastellamento del Monte di Soliera. Nel 1105 Gherardo Guido e Uguccione, discendenti di Rodolfo da Casola, riferiscono al cardinale Bernardo su alcune cappelle soggette alla chiesa di San Michele di Monte dei Bianchi, fra cui si cita San Prospero di Monzone che s’erge radicata sulla rupe. Nel 1419, risulta fra le comunità che si assoggettano alla Repubblica Fiorentina, staccatosi dal feudo di Gragnola a séguito dell’eccidio di Verrucola. Nel 1477 Monzone, con molte delle comunità della valle del Lucido e dell’alta valle Aulella, vengono ordinate e organizzate in capitanato (da tale epoca Monzone fece sempre riferimento a Firenze, prima dei Medici, quindi, dei Lorena). Gli attriti che sorgevano con Gragnola a questo punto si trasferirono su Fivizzano (lamentela dei monzonari verso il Granduca perché secondo l’esposto pare che gli amministratori di Fivizzano facessero pagare loro il doppio di alcune tasse rispetto alle altre comunità).
L’abitato di Monzone Alto, si differenzia dagli altri borghi e attrae l’occhio del viandante di sempre per la sua collocazione arroccata su uno sperone di roccia calcarea sulla sinistra del torrente Lucido di Vinca.
La sua disposizione in verticale termina con il tetto del campanile della chiesa principale che nella sua altezza tenta d’ergersi tra le vette delle Apuane. La vera strada d’accesso al nucleo abitativo non era ovviamente quella odierna, infatti, questa partiva da un mulino sottostante la zona detta “Contrada”, ciottolata, oggi non più frequentata, che s’inerpicava verticalmente fino ad arrivare alla prima porta d’accesso, la cui collocazione probabilmente ha origini più recenti rispetto al nucleo originale dell’abitato composto da Chiesa, Castello e Borgo Murato. Questo successivo ampliamento servì a difendere le costruzioni postume sorte fuori dal perimetro del borgo murato ed erano abitate dal contado.
Proseguendo la salita d’accesso, s’incontrava un’altra porta di diversa fattura e cronologia. In questo contesto risaltano due strutture rilevanti: l’oratorio di Santa Lucia di proprietà di una famiglia locale e un bassorilievo marmoreo posizionato all’interno dell’arco raffigurante il vescovo San Prospero titolare della chiesa. Forse la collocazione del santo sopra ad un portale sta proprio a significare il benvenuto rivolto al pellegrino e al viandante, volendo questo elargire la sua benedizione e protezione.
Proseguendo l’ascesa e attraversando un altro arco più profondo e di diversa datazione, si aprono in successione ai lati piccole piazzette fra cui quella del fontanone, dove due fontane d’arenaria portano acqua al paese più basso. La strada poi si biforca in due diverse traiettorie: quella a sinistra si avvicina maggiormente e più direttamente alla zona murata del castello; quella a destra sale più dolcemente all’interno di edifici che si collocano in modo sempre più serrato. Le murature della parte sommitale del borgo rivelano molte sovrapposizioni temporali che da un’analisi sommaria sembrerebbero partire dal XII secolo; pare emergere un unico contesto strutturale fra edificio religioso e vecchio castello, infatti, la canonica stessa sembra esse-re ritagliata in una porzione castrense. Fra gli edifici c’è d’interessante la chiesa di San Prospero, sorta nel 1106 come cappella alle dipendenze del monastero di Monte dei Bianchi. L’edificio, staccato dalla torre campanaria, presenta una facciata a capanna, un portale, un bassorilievo marmoreo datato 1508 e un’apertura rotonda al centro. La sua intitolazione originaria però era al Santo Salvatore, di cui ne rimane traccia grazie a un altare dedicato al Crocifisso.
Sulla sinistra della strada che da Monzone sale a Vinca, in mezzo ad un boschetto di pioppi che fa ombra ad un’osteria casereccia, vi sono due sorgenti chiamate acqua bianca e acqua nera. Quella nera (che nonostante il nome è bianchissima) serve per curare l’ipertensione, mentre quella bianca (che è salata come quella di mare) ha proprietà lassative. In tempo di guerra quest’ultima veniva prelevata per sopperire alla mancanza di sale. A Monzone lo spopolamento non si sente dato che ad oggi i residenti si avvicinano alle 550 unità.
Buone le possibilità di vitto e alloggio lungo questa tappa. Il Ristorante Albergo La Posta di Equi vanta la caratteristica d’essere il più antico albergo di tutta la Lunigiana dato che la prima conduzione della famiglia Pietrini risale a fine XIX secolo. La cucina è tradizionale, basata sulla qualità dei prodotti, quasi tutti di provenienza lunigianese: tagliatelle alla boscaiola con funghi e verdure, ravioli di carne, ravioli all’ortica, zuppa di funghi gustata in piccole zuppiere di porcellana, cinghiale alla cacciatora o al pepe verde, agnello fritto, sformato di verdura con porri e carciofi, pinolata, torta della nonna, ecc.
Altra struttura ultra centenaria è l’Albergo Ristorante da Remo, a Ponte di Monzone, con menù tipico a base di funghi e cacciagione: pappardelle al cinghiale, funghi fritti, cinghiale con polenta, lasagne al forno con capriolo, taglierini al minestrone, tagliata all’aceto balsamico, crostate e castagnaccio.
Terza possibilità, sempre a Equi Terme, la Locanda Elena, dotata di comode camere e ristorante con piatti curati, semplici ed economici.
Meritevole di menzione, anche se lontano dal punto tappa (provare a chiedere un servizio navetta), l’Agriturismo Al Vecchio Tino, a Germalla, Monte dei Bianchi (Mezzana). Ampia area esterna con piscina, vista panoramica e cucina attenta alla tradizione, ricca di prelibatezze indescrivibili.
- Ristorante Albergo La Posta, a Equi Terme di Fivizzano – 0585 97937
- Albergo Ristorante da Remo, a Ponte di Monzone di Fivizzano – 0585 97933
- B&B Rode’s House di Boemio L&C, a Equi Terme di Fivizzano – 0585 97916
- Ristorante Da Felice, a Equi Terme di Fivizzano – 0585 97916
- B&B Villa Tonelli, a Equi Terme di Fivizzano – 3421918719
- Locanda Elena, a Equi Terme di Fivizzano – 3886107578
- Agriturismo Al Vecchio Tino, a Germalla, Monte dei Bianchi di Fivizzano – 0585 97733
- Ristorante Pizzeria Affittacamere Il Borghetto, a Pieve San Lorenzo (LU) – 0583 611108
- Agriturismo Da Orso, a Ugliancaldo – 3298268038
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