Tappa 05: Coloretta - Cervara
Località toccate
Coloretta – Torrente Gordana – Rio Vaccareccia – Noce inferiore – Canale della Conca – Torrente Fiume – Nebbiola – Monte Volacra – Monte Rosso – Formentara – Capanne Poio – Lago Peloso – Piano degli Altari – Pendici sud Costa delle Segate – Monte Africo – Prada – Giogallo – Cascine del Monarca – Carpineto – Quartoia – Monte Tondo – Ravanello – Vezedo – Barca – Canale della Piagna – Torrente Darnia – Cervara.
La tappa
È il trasferimento dal territorio zerasco a quello di Pontremoli, attraverso le vallate del Gordana e del Darnia, alla scoperta del borgo abbandonato della Formentara, di luoghi toccati da leggende e d’integrità boschive che s’arrampicano ben oltre il nostro punto culminante dell’intero trekking: il Monte Africo.
A Coloretta (m. 670), (foto 1) nei pressi della piazzetta della chiesa dedicata a San Rocco, ci si sposta alla sinistra del campanile, su una pista che all’ultima casa diviene mulattiera bordata di rovi che taglia fra appezzamenti prativi. Accompagnati da bei panorami su Patigno e sull’aperta campagna che digrada dai rilievi de La Pelata e dal Monte Spiaggi, (foto 2) si scende ad una maestà con bassorilievo dedicato alla Madonna delle Grazie: qui è importante abbandonare la prosecuzione della mulattiera per imboccare a sinistra un viottolo in parte selciato che tra rovi, recinzioni, cerri e dolinette raggiunge un’altra maestà purtroppo trafugata. Sempre in discesa, in ordine si confinano pendii prativi, si tocca un ex pilone votivo e si perviene velocemente sul pontetto che scavalca il Torrente Gordana, qui alimentato pure dal Rio Vaccareccia, nei cui pressi sorgono alcune costruzioni, i resti dell’antico Molino Donnini e piccoli appezzamenti pascolivi. (foto 3, foto 4)
Le origini di questo corso d’acqua si ricercano fra il Monte Antessio e il Monte Tecchione, dove calano vorticosi e rapidi i torrenti Cedolo e Moriccio. Essi si incontrano più a valle in uno scrosciante abbraccio da cui appunto prende vita il Torrente Gordana, la cui identità è rivelata fin dal principio: acque limpide e cristalline scorrono veloci con ripetuti salti in un percorso tormentato e denso di ostacoli, con massi di diverse dimensioni disseminati lungo il letto. Un debutto fragoroso, come si conviene a un vero corso d’acqua di montagna, poi, a poco a poco, l’assordante voce del torrente inizia a placarsi nei primi slarghi, dove testimonianze e ricordi vari tramandano nel tempo avvincenti storie di lavoro ma anche leggende. I mulini Cestino, Garghè, Riccetto e Gianon sono i nomi di casolari oggi abbandonati che un tempo provvedevano alle esigenze vitali di tanti valligiani. Qui il Gordana scorre più lento, poi, in prossimità del tributario Noce e il vicino Mulino Marghen (li incontreremo più avanti), il torrente acquista sempre più rapidità iniziando a inabissarsi fra rocce e rupi grondanti. È questo il vero Gordana, dirompente fra pareti di sasso umide e boscose, mentre più a valle, immerso in boschi di cerri e castagni, tortuosamente si fa strada ricevendo le acque fresche e ossigenate di alcuni canali provenienti dalle vallate laterali, tra cui quello “dei Rumori”, sede di un’antica leggenda. Nelle vicinanze dell’abitato di Cavezzana Gordana, il torrente s’addentra tra anguste gole raggiungendo i famosi Stretti di Giaredo, uno spettacolo affascinante dove le acque cristalline scorrono tra due ripide pareti alte oltre cinquanta metri e che, in alcuni punti, arrivano quasi a toccarsi lasciando penetrare appena qualche raggio solare. Osservando attentamente le rocce s’intravedono alcune cavità o grotte naturali su cui la tradizione ha ricamato curiose leggende secondo le quali lì si nascondevano i Saraceni.
Con un secondo pontetto, si scavalca il Rio Vaccareccia, quindi, s’inizia a salire raggiungendo ben presto l’ennesima maestà con bassorilievo questa volta dedicato a Maria Vergine di Caravaggio, per la quale posero Pietro Pedroni e consorte insieme allo zio Ferrari.
Continuando sull’ampio tracciato chiuso da recinzione, si guadagna un ripiano sul quale si pianeggia attraversando pascoli ben conservati. (foto 5)
Toccato un sito rurale e poco più avanti una vicina torbiera che si manifesta a sinistra, si continua fra ampi pascoli e un filare di cerri (foto 6) perlomeno finché non si raggiungono le prime abitazioni di Noce. Dopo aver percorso per qualche metro uno stradino, poco oltre lo sfogo di una conduttura acquifera, si devia a destra fra le case (archivolto nei pressi), arrivando in breve dinanzi al piccolo oratorio di Santo Spirito, con fonte nei pressi. (foto 7) Più avanti ci si porta allo scavalcamento del Canale della Conca, il quale, con la voce “Canale”, origina il toponimo del distaccato quartiere di Noce inferiore (m. 618), (foto 8) dove le donne anziane ancora ricordano i tempi in cui, risalendo il canale, trovavano i loro spazi per lavare i panni.
Noce deve probabilmente il suo nome a un bosco di noci un tempo locato nei pressi. Come notato durante il passaggio, esso si suddivide in due piccoli nuclei, ossia Canale e Costa. Nel secondo, caratterizzato dalle tipiche case in sasso associate alle numerose volte che oscurano cunicoli ricchi di scantinati adibiti a ricoveri per animali da cortile, attrezzature rurali, cantine vinicole e semplici magazzini allo stato grezzo, si trova l’oratorio dedicato a San Rocco, a navata unica, con tetto spiovente e portale recante un’incisione del 1636 sormontato da una graziosa statua della Madonna. Perdersi tra le viuzze per curiosare ogni angolo del paese è sicuramente molto utile a farsi un’idea di come la vita qui possa essere semplice e genuina, dove i valori di un tempo ancora si conservano e non pesano più di tanto sull’economia di un progresso fortunatamente mantenuto nascosto. Lo scrigno del ciarliere poi conserva due storielle niente male: la prima narra di un caseggiato limitrofo (tale Agnudano), posto sulle rive di un laghetto che un giorno improvvisamente si svuotò e a cui fece séguito un secondo fenomeno ancora più funesto. La terra cominciò a sussultare come in preda a una scossa tellurica e dall’area dove prima c’era il lago uscirono getti di vapore e fango che, con uno straziante boato, inghiottirono l’intero abitato cancellandolo per sempre; la seconda storiella narra di un abitante malvagio di Noce che un giorno, recatosi in chiesa per rubare un’ostia consacrata, pensò di conficcarsela sotto la pelle di un taglio che aveva nella mano, un sortilegio che gli permise di evitare qualsiasi tipo di reazione da parte di chiunque. Alla sua morte fu seppellito al camposanto, ma essendo scomunicato ogni volta che suonavano le campane egli si agitava nella tomba emettendo strani rumori. Dopo esser stato dissotterrato, fu messo in un sacco e poi gettato da un’alta roccia in un canale poco distante dal paese. Mentre il morto precipitava si udivano dei rumori spaventosi simili a catene che battevano contro la roccia. La gente racconta che per molto tempo quei rumori continuarono a farsi sentire e fu per questo motivo che ancora oggi quel luogo conserva il toponimo di “Ponte dei Rumori”.
Nuovamente chiusi fra le case in sasso, ci si trasferisce verso la parte alta di Noce, (foto 9) dove si sottopassano arcate e scantinati fino al raggiungimento di una fonte nei pressi del cosiddetto Rustico di Ca’ Landi. Qui, con attenzione alla segnaletica, si scende a destra (a sinistra si salirebbe al vicinissimo Oratorio di Santa Maria) per poi piegare sùbito a sinistra a confluire sulla stradina asfaltata d’accesso all’altezza del numero civico 52.
Trascurata a destra la diramazione stradale che conduce alla bella struttura ricettiva del Mulino Marghen (talvolta Molino Marghin sulla toponomastica), si percorrono una cinquantina di metri circa prima di deviare a destra su una stradina secondaria assistita da alcune case in tinta bianca circondate da coltivi e frutteti. Superate due maestà, la seconda dedicata alla Madonna del Caravaggio (Tognarelli Gustavo di Angelo pose nel 1945), ci si porta sul ponte che scavalca il Torrente Fiume, (foto 10) oltre il quale (altra maestà dedicata a San Pellegrino per devozione di Davide Simonelli, 1926), tra pascoli e cinte a secco, si sale alle poche ultime case di Noce (m. 584), (foto 11) praticamente quelle sottostanti la Provinciale 37.
Lungo l’intero tracciato del Trekking Lunigiana accade spesso d’imbattersi in pilastri votivi, tabernacoli, edicole, maestà, cappellette, tanto frequenti quanto importanti per il culto religioso che un tempo aveva straordinaria rilevanza. Essi si trovano ovunque e per secoli, segno di una religiosità diffusa e condivisa, hanno accompagnato il viandante ritmandone i tempi del cammino e scandendone le soste. L’acronimo P.S.D. (per sua devozione) si trova spesso inciso al disotto dell’immagine sacra, accanto al nome dell’offerente, a confermare la motivazione che ha spinto il donatore ad erigere la maestà per esporla alla devozione pubblica. Quando la tradizione orale ha fatto giungere fino a noi l’eco delle ragioni che erano alla base di quel gesto, si ascoltano racconti di scampati pericoli, di paure da scongiurare o ricordi di disgrazie avvenute, motivazioni anche opposte dunque, ma in un caso o nell’altro riconducibili a una religiosità che ha trovato in queste forme d’espressione esteriore uno dei modi di manifestarsi. I marmi, quasi sempre bassorilievi, raffigurano con modi raffinati, rozzi o incerti i santi più vicini alla sensibilità popolare. L’immagine più ricorrente è quella della Vergine, sotto i vari titoli con i quali è stata di volta in volta venerata (Madonna di Loreto, Immacolata, del Buon Consiglio, del Carmine, del Rosario) e secondo i culti dei santuari a cui il viandante si recava in pellegrinaggio (Madonna di Montenero, della Guardia, di Caravaggio). Molto frequente è anche l’immagine di Sant’Antonio da Padova, assai presente nella devozione popolare. Talvolta appaiono invece figure di santi presenti nei culti delle località vicine, oppure invocati contro malattie o a protezione di parti del corpo (San Terenziano, Santa Lucia, Sant’ Antonio Abate, San Genesio) e non è infrequente che il santo raffigurato sia legato al nome dell’offerente. Ragioni diverse dunque hanno fatto sì che nel corso di tre secoli, dal XVI al XIX, epoca di maggiore diffusione del fenomeno, strade, porte d’ingresso ai borghi o dei palazzi e facciate delle case siano state punteggiate da centinaia di queste icone devozionali.
Raggiunta dunque in salita la strada che collega Coloretta a Pontremoli, la si attraversa per prendere di fronte, alla destra di una casa, un tracciato che sùbito presenta una maestà con marginetta dedicata alla Madonna col Bambino, oltre la quale inizia la lunga salita diretta alla Formentara.
Nel castagneto presto si confluisce in una carrareccia (rudere di capanna nei pressi), da seguire in salita passando tra antiche terrazze cadute in disuso, poi, un po’ più sostenuti, si rampa tra erica arborea, erica herbacea, castagni e querce ad incontrare un rio che taglia di netto la costa tra le località boschive de La Quinta e del Cavaticcio.
Fiancheggiando una proprietà recintata con capanna e ripiani a castagno, si evitano in successione due diramazioni a sinistra, quindi, guadato lo stesso rio incontrato più in basso, ci si allunga per bosco godendo di belle vedute su Noce, Patigno, Coloretta e tutta la campagna circostante.
Restando a sud rispetto alla costa di Camporlano, si continua su un antico selciato incontrando a un certo punto un altro corso d’acqua, oltre il quale ci si alza maggiormente fino a spostarsi sul versante occidentale che digrada dal Monte Volacra. (foto 12) (foto 12b)
Toccata una capanna s’inizia una lunghissima diagonale verso nord, ombreggiata da querce e castagni, (foto 13) con la quale s’arriva ad incontrare un’altra capanna, preludio di un’area caratterizzata da una macchietta a conifere posta a monte di alcuni ruderi (m. 1.040). Nuovamente all’interno del lussureggiante castagneto, ci si alza con maggior intensità accompagnati da splendide vedute verso la vallata di Zeri.
Evitata una diramazione a sinistra che conduce ad altri capanni, si continua a salire con possibilità concrete d’avvistare caprioli che qui godono d’un habitat confortevole e sicuro. A tratti riaffiora l’antico selciato, intanto, incontrata una splendida colonia di noccioli, (foto 14) che più avanti riserverà aspetti ancor più emozionanti, ci si porta verso una copertura a conifere, al cui margine inferiore corre una pista d’esbosco da intraprendere a sinistra.
Siamo praticamente sul versante ovest del Monte Rosso, caratterizzato da una copertura a cuscinetto d’erica herbacea mista a paleo, dove il panorama su Zeri assume connotati di livello assoluto, delineato sullo sfondo dalla cortina subappenninica che coinvolge il Góttero, La Pelata e il Tecchione; dalla parte opposta invece ecco il mare.
Giunti a una sorta di ampia sella (m. 1.131), con occhi rivolti verso il Monte Spiaggi e il Passo dei Due Santi (foto 15) si esce dalla carrareccia per seguire sulla destra una chiara traccia erbosa (foto 16) che, ancora fra noccioli disposti a tunnell (foto 17) e qualche melo, pianeggia verso le spoglie del villaggio fantasma di Formentara (m. 1.113). (foto 18, foto 19)
Ciò che appare all’escursionista è un qualcosa di straordinariamente unico, una sorta di varco nel nulla in cui all’improvviso si è protagonisti e allo stesso tempo sognatori di una chimera che non c’è più. Percorrendo il villaggio, ci si muove fra spesse facciate in pietra, tetti coperti a piagne che si caratterizzano per gli ampi aggetti talvolta uniti per formare un riparo, aie lastricate, ricoveri per animali o attrezzi, abbeveratoi con fonti (oggi non più attive). (foto 20) Sono una ventina di edifici diroccati di fattura fortemente condizionata dall’allevamento e dalla coltivazione dei cereali; infatti, l’interno di ogni edificio si articola in due parti: il pianterreno, destinato agli animali, con accesso dalla strada, e il piano superiore, utilizzato come abitazione, al quale si accede da monte. Sull’esterno invece una tettoia di legno serviva a proteggere il deposito dei foraggi. Questo insediamento, che sa tanto di alpeggio, conserva nella memoria disagi e fatiche appartenenti a una conduzione di vita difficile come quella dei contadini zeraschi. Cinque chilometri di transumanza in dura salita, un “soggiorno” che durava dalla primavera inoltrata fino all’autunno fatto di lavoro quotidiano e sinergia tra famiglie impegnate a mantener viva una comunità unita negli intenti e nei tradizionali costumi. Alla Formentara i contadini portavano mucche e pecore, piantavano patate e pulivano i prati per tagliare il fieno. Ciò che un tempo era una normale conduzione di vita, oggi sarebbe soltanto una vera e propria missione! C’è ancora chi ricorda quel tempo e racconta che alla Formentara dormivano anche in tre in un solo letto; pascolo e legnatico erano sfruttati collettivamente; ma il ricordo più bello resta legato all’oratorio dedicato a San Bartolomeo, (foto 21, foto 22) costruito nel 1776, l’unico edificio del villaggio con un soffitto a volta, posto a lato dell’asse viario principale. Qui il 24 agosto saliva il prete, per esercitare un rito di buon auspicio mirato a ottenere la grazia delle piogge, poi, verso il tardo pomeriggio, si ballava, si apriva il vino, si offrivano caramelle e cassette di fichi e di mele.
Abbandonato poco prima del 1960, la storia del villaggio comincia apparendo nel registro degli estimi del 1508, mentre già nel 1612 erano registrate quindici cascine tutte appartenenti a contadini di Noce. C’è pure una divertente diceria riguardante una zitella di Noce che alla Formentara entrando nella chiesetta e inginocchiandosi davanti all’altare, pregò il santo di farla maritare. Nascosto dietro l’altare però si trovava un giovanotto che ascoltata l’invocazione rispose: “sia che tu preghi o non preghi, marito non lo troverai”. Alzato lo sguardo la zitella replicò: “eh già, car der me santo, se t’ere un brav’omo in teivon tirà la pela in fondo ai pe’” (in poche parole se eri un brav’uomo non ti avrebbero martirizzato).
Dove un rio separa idealmente in due parti il villaggio, si sale verso nord (sinistra), guadagnando il ripiano su cui corre la nuova via d’accesso. La si segue andando ad affacciarci sul versante occidentale del Monte Colombo oggi deturpato da cinque aerogeneratori da cui, ironicamente, trae il nome di “parco eolico”.
Tagliando estesi pascoli che digradano dal conoide del Monte Spiaggi, (foto 23) s’incontra una sterrata che taglia trasversalmente: la si attraversa a sinistra per rimontare in pochi secondi un poggetto sul quale s’incontrano alcuni Chalet (il primo è chiamato Ossymoro). Proseguendo sulla sterrata che li fiancheggia, si salicchia in vista del villaggio Aracci, discutibile insediamento a vocazione turistica.
Toccata una nuova bella baita (m. 1.172), con fonte nei pressi, (foto 24) e poco più avanti i ruderi della più attempata Cascina Poio, si sale ancora fra importanti pascoli (foto 25) superando un casottino acquifero, oltre il quale, i soliti pascoli e la sparuta presenza del faggio conducono a monte dell’insediamento del Villaggio degli Aracci. (foto 26, foto 26 bis)
Solitamente questo tratto (e da qui a seguire fino oltre il Monte Africo) presenta neve fino a marzo inoltrato, ma è bene chiarire che non sussiste alcun tipo di problematica sennonché quella legata a un maggior dispendio di energie.
Dove la salita s’arresta, ci si trova sul luogo in cui è adagiato il Lago Peloso (m. 1.243), inserito in una conchetta prativa e caratteristicamente ricoperto da piantagione palustre. (foto 27)
A proposito di questo laghetto ci vengono raccontate un paio di leggende, una più assurda dell’altra. La prima riguarda una famiglia composta da tre persone (marito, moglie e un bambino in fasce) che, una domenica mattina, mentre erano impegnati a lavorare la terra con l’aratro e i buoi, furono ammoniti da un frate di passaggio per il fatto che, anziché essere a messa, stavano lavorando nel giorno festivo di San Giovanni. “Non è San Giovanni che sfama me e la mia famiglia” rispose il contadino, al che, nel giro di poco tempo, al calare d’una fitta nebbia, tutti persero l’orientamento e, animali compresi, finirono annegati nel lago (un’altra versione al posto della nebbia pone come elemento di causa la pioggia, copiosa al punto da trasformare il terreno arato in un acquitrino lacustre ove tutti sprofondarono). Ancora oggi si dice che guardando verso il centro del lago si possono scorgere gli occhi del bue e il fiocco della culla del bambino.
Un’altra leggenda, meno conosciuta, risale a un episodio probabilmente accaduto nel lontano 1937. Nel corso di una discussione fra amici un certo Giorgio sostenne che il cosiddetto “lago dell’occhio” fosse in un modo o nell’altro collegato al mare. Sentendosi preso in giro, lui stesso si recò al lago per gettarvi una tavoletta di legno con incisi il suo nome e la località di Cervara. Dopo un buon periodo di tempo, nel corso di una normale giornata di lavoro al porto spezzino, un tale Giuseppe notò galleggiare nell’acqua un insolito oggetto. Incuriosito lo raccolse e letta la scritta si recò a raccontar l’accaduto all’amico e collega Gaetano. Lo stesso Gaetano, morso dalla curiosità, prese in possesso la tavoletta, memore di una località del pontremolese che portava lo stesso nome. Dopo alcune settimane, recatosi per lavoro a Pontremoli, Gaetano decise di dare una svolta al mistero portandosi in quel di Cervara per risalire alla persona indicata nella tavoletta. Con l’aiuto dei paesani Giorgio venne presto trovato e da Gaetano invitato a sedersi in un bar, ma una volta mostratagli la tavoletta lo stesso Giorgio uscì dal locale barcollando e ridendo come uno stolto, catapultato in una labile condizione psichica così rimasta fino alla sua morte.
Scientificamente parlando invece le acque del laghetto, privo d’emissari e immissari, si raccolgono in uno dei rami sorgentizi del Torrente Betigna, affluente del Verde. Coperto da una torba galleggiante in cui vegetano sfagni, ciperacee e juncacee, presenta un assetto floristico composto da relitti glaciali quali l’insettivora drosera, l’endemica lycopodiella (muschio di palude) e la juncus bulbosus. Tra gli animali meritano menzione il tritone crestato, il tritone alpino e la rana montana.
Dal laghetto la nostra buona pista s’accomoda su un’imperiosa spianata prativa spalancata tra i faggi, posta alle pendici meridionali del Monte Spiaggi (o Margine), affacciata sul sottostante e vicinissimo Villaggio degli Aracci. Questa spianata (foto 28) costituisce tra l’altro il passaggio dallo zerasco al pontremolese, infatti, con attenzione alla segnaletica, è importante, una volta raggiunto il centro del pianoro, piegare a destra su un’altra pista (a sinistra la sterrata raggiunge sia il Villaggio degli Aracci sia la Provinciale 66 diretta al Passo dei Due Santi), prossima ad introdursi nel fresco di una faggeta. Siamo all’ingresso del cosiddetto Piano degli Altari, un tratto boschivo a dir poco straordinario (foto 29) che si prolunga su tutto il versante sudorientale del Monte Spiaggi e che, in leggera discesa, più in là di una sorgente, va ad incontrare l’affluente di destra che origina il Torrente Betigna, (foto 30) tributario della Valle del Verde.
Al di là del corso d’acqua, si riprende a salire in forma assai leggera, quindi, restando all’interno della faggeta a magro e alto fusto, (foto 31, foto 32) (foto 32b) dove si notano pure alcuni esemplari secolari, si passano resti di capanne e si perviene al guado d’un rio stagionale, perlopiù alimentato dallo scioglimento delle nevi.
Usciti per un attimo dal bosco, si attraversa un’ampia conca prativa, (foto 33) quindi, transitando ai piedi dei cosiddetti “Groppi”, ci si trasferisce alle pendici meridionali della Costa delle Segate, in località Fontanacci (m. 1.272). Qui si pianeggia assai lungamente fino a raggiungere una biforcazione in cui ci si tiene a sinistra. L’attraversamento del versante meridionale della Costa delle Segate pare infinito, in ogni caso, dopo aver guadato una serie di rivoli, si riprende a salire tollerando una lieve pendenza finché non si rimonta il crinale del Monte Africo (m. 1.317, alcune mappe lo indicano col toponimo di Monte Afra), il punto più alto toccato dall’intero Trekking Lunigiana. (foto 34) (foto 34b)
Si va a sinistra e fiancheggiando una recinzione, si sale senza forzare all’interno d’un un mix di faggi e castagni. Dove sorgono arbusti di ginestra e rosa canina, si riprende a calare affacciandosi verso l’Appennino, quindi, toccata l’area boschiva di Giogallo (m. 1.129), (foto 36) ci si allunga in direzione dell’evidente mole boscosa del Monte Grezzano, alle cui pendici meridionali s’incontrano le Cascine del Monarca (m. 1.129), (foto 37) ristrutturate a dimora e controllate da un impianto di video sorveglianza. Il toponimo ricorda un possedimento del fisco regio nel periodo longobardo carolingio.
Assai comodamente, si percorre tutto il versante sud del Grezzano, ove ci s’affaccia verso la confusa valletta del Pilaca, delimitata a nord dalla Borra di Girello e dall’Arie di Sopra.
Trascorrono poco meno di quindici minuti quando, dopo una serie di svolte attraverso la Borra Grande (possibile l’incontro con il capriolo), si perviene all’area dimenticata di Carpineto (m. 1.055, alcune mappe indicano Carpaneta), dove si notano sottili tracce antropiche oramai divorate dal tempo.
Con alternanze boschive macchiate da querce e castagni, si sfiora un enorme costone roccioso e ci si porta abbastanza velocemente verso le pendici meridionali del Monte Tondo, appena alti rispetto al vicino rudere di Quartoia (m. 1.019), alla testata della valletta del Piagnero.
Scavalcato il fosso citato, ci s’inserisce fra le pendici orientali del Monte Tondo e quelle occidentali del Monte Strinata, dove improvvisamente ci si affaccia verso Pontremoli che si scorge in lontananza.
La comoda pista a fondo naturale continua a perdere quota in forma lieve e compiuto un curvone perviene alle belle baite superiori di Ravanello (m. 940), (foto 38) sistemate nei pressi di un impianto a conifere a dominio della valletta del Lanzola.
Al guado del Lanzola, si passano le diroccate capanne inferiori di Ravanello (m. 929), poi, con nuove alternanze boschive e un’importante finestra sia verso l’Appennino (foto 39) sia verso le Alpi Apuane, si raggiungono pure le capanne al bivio di Vezedo (m. 863), in parte recuperate.
Oltrepassato un traliccio, ci si porta ad incontrare altre capanne e senza deviare dal tracciato principale, si perviene alle baite de “la Crocetta” (m. 866), (foto 40) divise dalla strada. Sfiorato un convogliatore acquifero, ci si affaccia per un attimo verso la Valle del Verde, dove in primo piano si delinea come un abbozzo di punto e virgola il caseggiato di Grondola.
Pochi minuti ancora e, alle pendici meridionali del Monte Moscato, ci si ferma in località Barca (m. 830), al cospetto dell’isolata e recintata Villa Assunta, servita da una carrozzabile proveniente da Prato del Prete.
Evitata a destra la rotabile, si piega dalla parte opposta su uno sterrato che attraversa un’abetaia e incontra presto le case più nascoste di Barca, circondate da ameni appezzamenti prativi e un rado impianto a conifere.
Qui non c’è anima viva, in ogni caso, si prosegue sull’eroso tracciato che porta all’interno d’un bosco misto nel valloncello del Darnia. Sfiorati un paio di ruderi, s’arriva al guado del Canale della Piagna, quindi, passando ben larghi fra ripiani prativi e consistenti aree assalite da rovi e arbusti, si ritrova il bosco, si guada un altro rio (in alto a sinistra si notano alcune isolate capanne di Plerici) e ci si muove a svolte (altro rio con cascatelle) fino a raggiungere il ponticello che salta il Torrente Darnia, (foto 41) originario del Monte Africo; in basso si notano i resti di un antico mulino (foto 42) e di alcune capanne.
Sull’altro versante, si procede in falsopiano, s’incontra un tabernacolo con bassorilievo dedicato alla Madonna di Montenero (foto 43) e costeggiando il ripido pendio de “la Groppa”, in parte alberato e in parte roccioso, si resta altissimi sulla sinistra orografica valliva, dove all’improvviso ci si riaffaccia verso Grondola. Un lungo rettilineo pianeggiante nel castagneto (foto 44) porta al bivio con la prosecuzione della tappa successiva, che si lascia a destra, oramai prossimi alla stradina asfaltata che a sinistra sale al cimitero nuovo di Cervara. Passando invece accanto al vecchio cimitero, al cui interno sono depositate in mostra vecchissime lapidi dissepolte ancora provviste di fotografie dei defunti, ci si collega all’ex variante bassa della Grande Escursione Appenninica, lunghissimo itinerario a tappe che da Bocca Trabaria (sopra Sansepolcro, in provincia di Arezzo) arriva fino al Passo dei Due Santi, dove idealmente si allaccia a una bretella dell’Alta Via dei Monti Liguri.
Scendendo lungo la rotabile per un centinaio di metri, al primo curvone (ci sono dei box) si devia a sinistra su una stradina che, fra le abitazioni, fa il suo ingresso in quel di Cervara (m. 725). (foto 45, foto 46)
È l’ultimo abitato della Valle del Verde e il suo toponimo probabilmente deriva dalla numerosa presenza del cervo nel territorio circostante. Il paese è diviso in tre territori, o meglio, in tre livelli: Cervara alta, di mezzo e bassa. Nella parte bassa e di mezzo c’è il villaggio stabilmente abitato; nella parte alta, invece, si trovano gruppi di capanne utilizzate per l’alpeggio, costruite con blocchi d’arenaria (murate a secco) e ricoperte con paglia. L’impressionante calo demografico (fino al 1990 qui vivevano quasi trecento persone, mentre ad oggi se ne contano una settantina) sta compromettendo l’originalità del borgo, le cui case sono oramai preda di turisti (perlopiù stranieri), presenti soltanto durante i brevi periodi vacanzieri.
La popolazione locale, perlopiù anziana, è strettamente legata al dialetto cervarotto, tanto che molti di loro trovano difficoltà a parlare la lingua italiana. Soprannominati “micci” (persone instabili e attaccabrighe), i cervaresi vantano una curiosità del tutto particolare risalente al primo dopoguerra, allorché uomini e donne decisero di affibbiare un soprannome ad ogni abitante, esigenza nata con l’intento di creare una precisa identificazione nei confronti di coloro che portavano lo stesso nome e anche cognome. Col passare del tempo però questi secondi nomi sono divenuti realtà quotidiana, al punto che molti turisti abituali non sono ancora oggi a conoscenza della reale identità dei cervaresi.
Curiosando in paese è interessante soffermarsi ad osservare la chiesa dedicata a San Giorgio, (foto 47) restaurata di recente, sulla cui facciata alcune lapidi ricordano i Caduti di guerra; la pianta è a croce latina e all’interno sono conservati pregevoli affreschi, statue e altri oggetti di fattura artigianale.
Inoltre, osservando sulle chiavi di volta di alcuni portali o sulle facciate delle case, è possibile scorgere qualche raro “faccion”, (foto 48) sculture d’arte rustica in pietra raffiguranti figure antropomorfe, talvolta deformate, la cui funzione originaria era squisitamente apotropaica, mirata cioè a scacciare influssi malvagi (XVI-XVII secolo).
Nella parte bassa del paese vi sono inoltre un antico ospedale (in via di ristrutturazione, ma destinato ad altre funzioni) e la vecchia scuola elementare, oggi ceduta in locazione.
Tra gli eventi più significativi che si svolgono a Cervara ricordiamo la festa della Madonna, celebrata la prima domenica di luglio con la recita della Santa Messa in latino e una processione con una statua ottocentesca diretta sul vicino luogo de “la Piana”; un’altra celebrazione nel mese di agosto con tanto di lotteria e buffet finale prevede una processione lungo la strada, illuminata da candele, che dal paese sale fino al camposanto. Purtroppo, in conseguenza della migrazione dalle campagne alla città, da oltre un decennio sono andate perdute la festa del mirtillo e il falò al Perdino.
La tradizione culinaria locale è basata essenzialmente sui prodotti del sottobosco (funghi, lamponi e mirtilli) e l’utilizzo della farina di castagne per realizzare una serie di piatti poveri ma prelibati. Oltre a questi prodotti di sottobosco, sapientemente confezionati in arbanelle di vetro e venduti al mercato di Pontremoli, nelle osterie e nei negozi della Valle del Verde, famose sono le “taiette”, tagliatelle di castagne, un tipo di pasta di produzione interamente casalinga in cui l’ingrediente base è per due terzi la farina di castagne e per un terzo la farina di grano. Tradizionalmente vengono condite con la ricotta, la panna e il pecorino grattugiato, ma si può ricorrere anche al pesto o a un buon sugo di pomodori e funghi.
Ad oggi a Cervara l’unica possibilità di alloggio è nella canonica della chiesa. Altra soluzione, salvo la fortuna di trovare ospitalità (anche a pagamento) in loco, è quella di recarsi con l’autobus o con l’autostop (oppure farsi venire a prendere) a Grondola, dove sono presenti alcune strutture ricettive.
- Ristorante Qui come una volta, a Noce di Zeri – 0187 447392
- Agriturismo Mulino Marghen, a Noce di Zeri – 0187 447431 oppure 3394279338
- Agriturismo Federico Farm, a Grondola di Pontremoli – 3338841166 oppure 0187 433861
- Canonica della chiesa di San Giorgio, a Cervara di Pontremoli – 3289022700
- Agriturismo Ca del Lupo, a Traverde Case Sparse di Pontremoli – 3405672097
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